RINNOVARE LA CULTURA DEL LAVORO ITALIANO

di Romano Benini



Il nostro Paese, povero di materie prime, è diventato nei secoli un punto di riferimento nelle produzioni manifatturiere ed è riuscito a costruirsi una indubbia reputazione globale come luogo del “buono e del bello”, ossia come territorio d’elezione della manifattura di qualità. La capacità competitiva del nostro paese si lega anche alla capacità di continuare a produrre beni di qualità utilizzando macchinari italiani. Il mantenimento di questa capacità, ossia di questa potenzialità del sistema italiano, si rende possibile solo se si mette in pratica ciò che si può fare, ossia si converte la capacità in competenze e conoscenze.

In questa fase di transizione digitale ed ecologica dei sistemi produttivi, in cui siamo chiamati ad aumentare la produttività ma anche a rendere più efficiente in termini qualitativi l’organizzazione del lavoro, l’Italia sta giocando una sfida importante.

La stiamo giocando abbastanza bene, siamo la settima nazione manifatturiera al mondo, abbiamo un’alta applicazione del design alle nostre produzioni, tra i paesi del G20 la nostra industria è tra le meno inquinanti, aumentano i nostri brevetti industriali. Tuttavia per continuare ad essere competitivi dobbiamo sapere investire su elementi chiave, che riguardano in primis la centralità del fattore umano, della cultura del lavoro e dell’apprendimento. Tre sono gli aspetti fondamentali da valutare.

Il primo riguarda la cultura del lavoro. In questi anni abbiamo assistito ad una vera e propria mortificazione del lavoro manuale e ad una svalorizzazione della formazione tecnica. È paradossale che in un paese che deve la sua ricchezza soprattutto alle capacità tecniche e manuali si sia affermata una cultura diffusa che non considera adeguatamente il ruolo centrale delle competenze e professioni tecniche. Di conseguenza abbiamo nei nostri istituti tecnici e professionali, negli ITS e nei corsi di laurea ad indirizzo tecnico molti meno giovani di quanto siano richiesti dalle nostre imprese. Questo vale anche per i profili alti: ogni anno in Italia si laureano la metà degli ingegneri che si laureano in Francia, un paese che ha una industria di minor peso rispetto alla nostra. È un fenomeno allarmante, che è trasversale a tutti i livelli di qualifica, da quelle basse a quelle più alte, e che ostacola anche il buon funzionamento del mercato del lavoro.

Un altro elemento riguarda il rapporto tra formazione teorica e formazione pratica. Si tratta di una componente importante che deve far parte di tutti i percorsi di apprendimento e che è determinante soprattutto per le competenze del manifatturiero e per rafforzare le conoscenze tecnologiche e le prospettive che il sistema digitale offre per la trasformazione delle nostre attività produttive. Il governo ha investito nei mesi scorsi per potenziare il sistema duale, soprattutto per poter diffondere questo modello di apprendimento in azienda anche nelle regioni italiane del Centro Sud. Arrivano segnali confortanti: in questo caso sono finalmente le imprese a vedersi come luoghi della formazione e dell’apprendimento.

Infine abbiamo il tema del life long learning e del life wide learning.

È evidente che la cornice deve essere sempre di più quella di un continuo apprendimento.

Siamo chiamati sempre di più a sviluppare il passaggio tra capacità, competenze e conoscenze lungo tutta la nostra esistenza. Questo vale per i contesti dell’apprendimento formale, ma anche per l’apprendimento non formale, determinanti nelle nostre produzioni artigianali.

Dobbiamo creare la società dell’apprendimento.