di Andrea Striano  
Responsabile Dipartimento Imprese & Mondi Produttivi – Fratelli d’Italia, Caserta
Quando acquistiamo un antibiotico, un antitumorale o un semplice analgesico, difficilmente pensiamo al percorso che ha portato quel farmaco sugli scaffali della farmacia. Eppure dietro ogni compressa c’è un mondo complesso, fatto di ricerca scientifica, processi industriali, logistica internazionale e scelte geopolitiche. Un mondo che ha un punto debole ben preciso: i principi attivi farmaceutici. Sono queste sostanze a garantire l’efficacia di un farmaco. Senza principi attivi, anche il più avanzato impianto farmaceutico diventa inutile. Ed è qui che emerge la fragilità europea: oltre il 70% dei principi attivi utilizzati nel continente proviene da Cina e India. Una dipendenza che non è solo economica, ma strategica, e che si è trasformata in vulnerabilità evidente durante la pandemia.
Il Covid-19 ha mostrato cosa accade quando una filiera globale così delicata si inceppa. Le restrizioni imposte dai Paesi esportatori, i blocchi ai trasporti e la corsa mondiale all’approvvigionamento hanno provocato carenze di medicinali di base, costringendo governi e aziende a fare i conti con la fragilità del sistema. Non si è trattato di un episodio isolato, ma di un campanello d’allarme che ha reso evidente quanto l’Europa si sia progressivamente spogliata della propria capacità produttiva, affidandosi ad attori esterni.
Secondo uno studio di Prometeia-Aschimfarma, per riportare una parte significativa della produzione in Europa sarebbero necessari circa 1,5 miliardi di euro di investimenti. Una cifra che può sembrare elevata, ma che va confrontata con i costi, non solo economici ma anche sociali, di una crisi di approvvigionamento: ospedali in difficoltà, pazienti senza cure, aziende costrette a rallentare o fermare la produzione. È un prezzo che l’Europa non può più permettersi di pagare.
In questo scenario l’Italia rappresenta un caso particolare. Con il 26% della produzione europea di principi attivi, il nostro Paese è leader del settore davanti a Spagna (18%), Irlanda (12%) e Germania (9%). È un primato poco conosciuto, ma che testimonia la forza di un comparto che negli ultimi anni ha continuato a crescere. Nel 2018 il fatturato nazionale del settore era pari a 4,05 miliardi di euro, mentre le stime per il 2025 indicano un valore di 5,76 miliardi. La filiera italiana si è distinta per capacità tecnologica, standard qualitativi e competitività internazionale. Tuttavia, nonostante questo ruolo di leadership, la dipendenza dal Far East rimane marcata: oltre tre quarti dei principi attivi critici continuano ad arrivare da Cina e India.
Ciò significa che, pur disponendo di competenze e capacità industriali, l’Europa e l’Italia restano esposte al rischio di interruzioni o rincari dettati da fattori esterni. In un contesto globale sempre più instabile, con tensioni geopolitiche e guerre commerciali, affidarsi in modo così massiccio a pochi fornitori non è sostenibile. Il tema non riguarda soltanto l’industria farmaceutica, ma tocca direttamente la sovranità industriale del continente. Senza un approvvigionamento sicuro di principi attivi, non si producono antibiotici, antitumorali, anestetici e farmaci salvavita. La questione va quindi ben oltre la sfera economica: è una questione di sicurezza sanitaria e, in ultima analisi, di tutela della salute pubblica.
Non è un caso che associazioni come Aschimfarma e Federchimica chiedano con forza un intervento strategico da parte delle istituzioni europee. Le proposte vanno da incentivi fiscali per chi investe in impianti sul territorio comunitario, a regole più snelle e uniformi, fino a un vero e proprio piano europeo di reindustrializzazione del settore. L’obiettivo è ridurre la dipendenza esterna e valorizzare la capacità produttiva già presente in Paesi come l’Italia.
L’Unione Europea si trova oggi di fronte a un bivio. Da una parte può continuare a dipendere dal Far East, accettando i rischi connessi a questa scelta e confidando nella stabilità dei rapporti commerciali. Una strada che nel breve periodo può apparire più economica, ma che nel lungo termine espone a conseguenze potenzialmente disastrose. Dall’altra può scegliere di investire nel re-shoring industriale, riportando in Europa parte della produzione di principi attivi. È una scelta che richiede risorse, ma che garantisce benefici duraturi: sicurezza degli approvvigionamenti, posti di lavoro qualificati, crescita economica e maggiore resilienza del sistema produttivo.
La pandemia ha dimostrato che il costo della non-scelta è molto più alto di qualsiasi piano industriale. Continuare a rimandare significherebbe condannare l’Europa a una fragilità permanente. Il caso dei principi attivi si inserisce infatti in un dibattito più ampio sul futuro della manifattura europea. Energia, microchip, materie prime critiche: in tutti questi settori l’Europa ha progressivamente perso terreno, affidandosi all’esterno e rinunciando a una parte della propria autonomia. La farmaceutica è solo l’ultimo esempio di un problema strutturale che richiede risposte coordinate e una visione di lungo periodo.
Investire in questa direzione non significa chiudersi al mercato globale, ma rafforzare la propria posizione contrattuale. Un’Europa più autonoma nelle produzioni essenziali è anche un partner più solido nei rapporti internazionali. Al contrario, un continente che dipende dall’esterno per i beni strategici sarà sempre in posizione di debolezza. Il futuro della farmaceutica europea dipende dalle scelte che verranno prese nei prossimi anni. Relegare il tema dei principi attivi a un dettaglio tecnico sarebbe un errore. In gioco non c’è soltanto la capacità di produrre farmaci, ma la credibilità stessa dell’Europa come sistema industriale capace di garantire benessere, sicurezza e crescita ai suoi cittadini.
La vera sfida è trasformare la vulnerabilità in opportunità: dalla dipendenza al rilancio, dall’incertezza alla sovranità produttiva. Perché la salute non può attendere i tempi delle geopolitiche globali.
  


