di Andrea StrianoÂ
Responsabile Dipartimento Imprese & Mondi Produttivi – Fratelli d’Italia, Caserta
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Negli ultimi anni, la parola transizione è diventata una sorta di mantra politico e industriale. Tutti ne parlano, ma pochi la comprendono davvero. Il Green Deal europeo, concepito per accelerare la decarbonizzazione, è nato con un obiettivo nobile: rendere il continente un laboratorio globale di sostenibilità . Tuttavia, quando la visione si scontra con l’economia reale, emergono crepe che rischiano di trasformare un’idea virtuosa in un boomerang industriale.
Oggi il settore automobilistico europeo è l’epicentro di questo cortocircuito. Mentre Bruxelles continua a tracciare scadenze e vincoli sempre più rigidi, l’Italia — con la concretezza di chi produce, non solo di chi norma — chiede una cosa semplice: una transizione ecologica che non diventi una resa industriale. Il motore, nel nostro Paese, non è solo un componente meccanico: è il risultato di decenni di competenze, di filiere integrate, di migliaia di piccole e medie imprese che hanno costruito, pezzo dopo pezzo, un’eccellenza mondiale. Dai distretti meccatronici del Piemonte alle officine della Campania, esiste un patrimonio umano e tecnico che non può essere dismesso con un decreto.
Oggi la filiera automotive italiana impiega oltre 270.000 addetti diretti e sostiene quasi un milione di lavoratori nell’indotto: un ecosistema complesso, che vive di equilibrio tra innovazione, know-how e adattamento continuo. Eppure, le nuove politiche europee sembrano ignorare un dato di fondo: una transizione sostenibile deve essere sostenibile anche per chi lavora. La corsa all’elettrico, così come è stata imposta, rischia di trasformarsi in una monocultura tecnologica. Non è una battaglia contro l’innovazione — nessuno mette in discussione la necessità di ridurre le emissioni — ma contro l’idea che esista una sola via possibile.
La neutralità tecnologica non è un compromesso, ma una condizione di libertà industriale. Significa lasciare spazio all’idrogeno, ai biocarburanti, alle nuove generazioni di motori termici a basse emissioni e a un’infrastruttura mista che accompagni il cambiamento. In caso contrario, l’Europa rischia di passare dalla dipendenza dal petrolio a quella dalle batterie e dalle materie prime controllate da pochi attori globali.
L’Italia, in questo contesto, sta tentando — spesso in solitudine — di riportare il dibattito su un terreno pragmatico. Non è negazionismo ecologico, ma realismo produttivo: un approccio che non rifiuta l’innovazione, bensì la vuole ancorare alla realtà delle filiere, dei tempi industriali e delle persone. In un’Europa che spesso parla per principi, l’Italia ricorda che non c’è sostenibilità senza competitività , e che un continente che perde le sue fabbriche non potrà mai essere davvero verde.
Serve dunque un cambio di prospettiva. La vera sfida non è decidere se il motore debba essere elettrico o termico, ma come rendere sostenibile l’intero ciclo industriale: dal design alla produzione, dal riciclo all’energia. La transizione ecologica sarà un successo solo se saprà essere anche una transizione industriale, sociale e territoriale. E in questo percorso, la voce dell’Italia — dei suoi imprenditori, dei suoi tecnici, dei suoi distretti — non può restare inascoltata. Perché ogni volta che l’Europa ignora chi produce, rischia di disattivare non solo un motore, ma un intero modello di civiltà .


