di Andrea Striano  
Responsabile Dipartimento Imprese & Mondi Produttivi – Fratelli d’Italia, Caserta
C’è una parola che da sola basterebbe a spiegare l’importanza di questa notizia: realismo. Dopo anni di direttive, annunci e strategie spesso scollegate dalla realtà industriale, l’Europa torna a parlare con la voce dei suoi due motori produttivi – Italia e Germania – per rimettere al centro la sostenibilità vera: quella che tiene insieme ambiente, economia e lavoro.
La lettera congiunta firmata dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, e dalla ministra tedesca Katherina Reiche, rappresenta un punto di svolta non solo politico ma culturale. Per la prima volta dopo molto tempo, due Paesi che incarnano il cuore manifatturiero d’Europa si muovono insieme per chiedere alla Commissione un cambio di rotta sulla transizione ecologica dell’automotive. Non si tratta di negare la necessità del cambiamento, ma di guidarlo in modo più equilibrato, razionale e sostenibile.
Negli ultimi anni, molte imprese del settore automobilistico hanno vissuto un senso di disorientamento. Le regole europee sulla decarbonizzazione sono arrivate con tempi e modalità difficili da sostenere, soprattutto per le piccole e medie aziende della filiera – quelle che producono componenti, tecnologie e servizi e che costituiscono l’ossatura industriale di intere regioni. La transizione elettrica, così come era stata concepita, rischiava di spaccare il tessuto produttivo europeo, lasciando indietro le realtà più fragili.
Con questa iniziativa congiunta, Italia e Germania dimostrano che la sostenibilità non deve essere una corsa solitaria verso obiettivi imposti dall’alto, ma un percorso condiviso tra governi, imprese e lavoratori. È un segnale forte, che restituisce all’industria europea una voce unitaria e autorevole. Due Paesi produttivi che non si rassegnano a subire direttive, ma che vogliono contribuire a scrivere le regole, proponendo un modello di transizione compatibile con la competitività e la crescita.
Dietro ogni fabbrica, ogni linea di montaggio e ogni officina di componentistica ci sono migliaia di famiglie. L’automotive, in Europa, non è solo un settore industriale: è una cultura produttiva che genera oltre tredici milioni di posti di lavoro diretti e indiretti. Negli ultimi anni, molti lavoratori hanno percepito la transizione ecologica come una minaccia più che come un’opportunità. Il rischio di chiusure, delocalizzazioni e perdita di competenze era reale.
La presa di posizione di Italia e Germania è quindi una buona notizia anche per il lavoro. Significa che la politica torna a farsi carico delle ricadute sociali del cambiamento, riconoscendo che una transizione “sostenibile” lo è davvero solo se non lascia indietro nessuno. Se garantisce formazione, ricollocazione, innovazione condivisa. Se permette a un tecnico, a un ingegnere o a un meccanico di continuare a lavorare dentro il nuovo paradigma produttivo senza sentirsi escluso o superfluo.
Può sembrare un paradosso, ma un approccio più realistico alla transizione ecologica è anche più efficace per l’ambiente. Quando la politica impone obiettivi irrealistici, le imprese finiscono per inseguire risultati formali, spesso con scarsi benefici ambientali. Una transizione più pragmatica, invece, consente di pianificare investimenti, sviluppare tecnologie pulite e costruire filiere realmente circolari.
Il “cambio di rotta” chiesto da Italia e Germania non è un passo indietro rispetto alla decarbonizzazione: è un modo per renderla credibile, graduale e duratura. Solo un’industria solida e competitiva può investire in innovazione ambientale. Un’impresa in crisi non può salvare il pianeta; un’Europa che perde capacità produttiva non può guidare la transizione globale: la subisce.
Questa iniziativa è una buona notizia anche per l’Europa nel suo complesso. Da anni, molti osservatori denunciano la mancanza di una vera politica industriale comune. L’Unione ha spesso eccelso nel fissare obiettivi, ma è rimasta debole nel sostenerli concretamente. L’intesa tra Roma e Berlino rappresenta un segnale di maturità strategica: l’Europa può essere unita non solo sulle regole, ma anche sulle ambizioni produttive. Può ritrovare un equilibrio tra chi produce e chi regola, tra chi investe e chi pianifica.
È il segno che esiste un’Europa produttiva e concreta, fatta di distretti, officine, laboratori e filiere. Un’Europa che non vive solo di burocrazia, ma di lavoro e ingegno. Che capisce che il valore non nasce dai documenti, ma dal fare.
Per l’Italia, poi, questa è una vittoria politica e industriale. Dopo anni in cui il nostro Paese appariva marginale nei grandi dossier europei, oggi si ritrova protagonista. È stata proprio un’iniziativa italiana – il “non paper” presentato un anno fa – ad aprire il dibattito strategico sull’automotive in sede Ue. E ora, con l’alleanza tedesca, il nostro Paese consolida la propria credibilità e influenza, proponendo un approccio alla transizione che mette insieme competitività, occupazione e sostenibilità.
In un momento in cui la concorrenza globale si muove a ritmi altissimi, l’Italia sceglie la via dell’azione e della cooperazione. Non l’isolamento, ma l’alleanza. Non la protesta, ma la proposta. È il modo più intelligente di tutelare il proprio tessuto produttivo e, al tempo stesso, di rafforzare l’Europa nel contesto mondiale.
Infine, questa è una bella notizia anche per chi guarda al futuro. L’iniziativa tra Italia e Germania dice ai giovani che l’industria europea non è un relitto del passato, ma un cantiere del domani. Che la transizione verde non è sinonimo di deindustrializzazione, ma di evoluzione del modo di produrre.
Si torna a parlare di futuro con la concretezza di chi costruisce, non solo con la retorica di chi annuncia. In un mondo in cui la politica spesso insegue l’emergenza, questa intesa dimostra che si può essere ecologisti e industriali, visionari e concreti, europeisti e produttivi allo stesso tempo.
È una buona notizia perché restituisce fiducia: nell’industria, nella politica, e soprattutto nell’idea che l’Europa possa ancora decidere il proprio destino, non subirlo. Forse, per la prima volta dopo anni, a Bruxelles torna a soffiare un vento di realismo produttivo.
  


