di Andrea Striano  
Responsabile Dipartimento Imprese & Mondi Produttivi – Fratelli d’Italia, Caserta
Negli ultimi anni il dibattito sulle politiche europee in materia ambientale si è fatto sempre più intenso, e mai come oggi la questione riguarda da vicino il futuro della nostra industria. Il Green Deal, presentato come il grande piano di trasformazione verde del continente, ha acceso entusiasmi ma anche sollevato preoccupazioni crescenti nei comparti produttivi più esposti. L’obiettivo dichiarato di decarbonizzare l’economia europea entro il 2050 è certamente ambizioso e in linea con le sfide climatiche globali, ma i mezzi attraverso cui l’Unione intende raggiungerlo stanno creando effetti collaterali dirompenti. La rigidità delle regole, la tempistica accelerata e l’assenza di misure di accompagnamento adeguate rischiano di trasformare una grande occasione di modernizzazione in un cappio al collo delle imprese.
Tra i settori che stanno pagando più caro il prezzo di questa impostazione c’è la ceramica, simbolo del made in Italy e leader mondiale in termini di qualità, design e capacità di esportazione. Le aziende italiane del comparto hanno saputo conquistare mercati globali grazie a un mix inimitabile di creatività, innovazione tecnologica e radicamento territoriale. L’Emilia-Romagna, con il distretto di Sassuolo, rappresenta non solo la capitale europea della ceramica, ma un vero modello di specializzazione produttiva che ha generato sviluppo, occupazione e reputazione internazionale. Questo patrimonio rischia però di essere compromesso da politiche europee che non distinguono tra settori, territori e gradi di esposizione ai costi energetici.
La ceramica, infatti, appartiene a pieno titolo alla categoria dei comparti cosiddetti “energivori”, cioè altamente dipendenti da energia elettrica e gas naturale per i propri processi produttivi. I forni industriali che trasformano argilla e materie prime in piastrelle, rivestimenti e sanitari hanno bisogno di continuità di approvvigionamento e di costi sostenibili. L’impennata dei prezzi energetici registrata negli ultimi anni, unita agli oneri crescenti legati alle politiche di riduzione delle emissioni, ha messo molte imprese in seria difficoltà. Non parliamo soltanto di margini ridotti, ma di un vero rischio di perdita di competitività rispetto a concorrenti internazionali meno vincolati da regole ambientali stringenti. Cina, India, Turchia e Stati Uniti non stanno affrontando la transizione verde con lo stesso grado di severità normativa, e questo crea squilibri che penalizzano l’Europa e in particolare l’Italia, Paese manifatturiero per eccellenza.
Il problema non riguarda soltanto la ceramica. Altri comparti strategici come la siderurgia, la chimica, la carta e il vetro condividono la stessa fragilità. Sono industrie fondamentali per la catena del valore, spesso a monte di interi settori produttivi, eppure si trovano a operare in condizioni di svantaggio competitivo. Se non si interviene con misure correttive, la transizione rischia di trasformarsi in una deindustrializzazione. È questa la grande contraddizione del Green Deal: invece di rafforzare l’autonomia industriale europea, potrebbe indebolirla proprio mentre il contesto geopolitico richiede più resilienza e più capacità produttiva interna.
L’Italia, con il suo tessuto di distretti industriali e il suo orientamento all’export, vive questa sfida con particolare intensità. Non possiamo permetterci che comparti come la ceramica perdano quote di mercato o, peggio, delocalizzino la produzione. Significherebbe non solo meno lavoro e meno ricchezza per i territori, ma anche una perdita di peso strategico per l’intero Paese. La decarbonizzazione è un obiettivo che condividiamo, ma deve essere perseguito con pragmatismo, accompagnando le imprese con incentivi, innovazione tecnologica e tempi realistici. Diversamente, rischiamo di trasformare la transizione ecologica in un autogol economico e sociale.
Guardando al distretto ceramico di Sassuolo, emergono con chiarezza i punti di forza e i rischi. Da un lato, le aziende hanno già investito in impianti più efficienti, hanno sviluppato sistemi di riciclo delle acque e riduzione degli scarti, hanno lavorato sull’innovazione dei materiali per renderli più leggeri e sostenibili. È la dimostrazione che la strada della sostenibilità non viene rifiutata dalle imprese, ma anzi viene interpretata come leva competitiva. Dall’altro lato, però, senza un quadro di regole equilibrato e un sostegno concreto ai costi della transizione, questi sforzi rischiano di non bastare. Il risultato sarebbe paradossale: imprese italiane virtuose penalizzate, mentre concorrenti extraeuropei meno attenti alle emissioni continuano a guadagnare spazio sul mercato.
L’Europa deve allora cambiare rotta. Non si tratta di rinunciare agli obiettivi ambientali, ma di modulare le politiche in modo più intelligente. Bisogna distinguere tra settori energivori e comparti meno esposti, calibrare incentivi specifici, sostenere l’innovazione tecnologica e garantire approvvigionamenti energetici sicuri e competitivi. Non è accettabile che una politica nata per salvaguardare il pianeta finisca per erodere i fondamentali industriali dell’Europa. Il rischio è quello di trasformare il continente in un laboratorio sperimentale della decarbonizzazione, mentre altri Paesi sfruttano il nostro indebolimento per accrescere la propria supremazia industriale.
Le associazioni di categoria, come Confindustria Ceramica, hanno già lanciato l’allarme, chiedendo con forza un intervento politico deciso. Il tema è stato portato all’attenzione della Commissione europea, ma serve una risposta concreta e tempestiva. Ogni mese che passa significa ulteriori perdite di competitività, investimenti rinviati o cancellati, posti di lavoro messi a rischio. Non è una battaglia corporativa, ma una questione di interesse nazionale e continentale. Difendere la ceramica e gli energivori non significa difendere il passato, ma salvaguardare il futuro industriale dell’Europa.
L’Italia, da parte sua, ha il dovere di farsi portavoce di questa istanza. Essere leader mondiali nella ceramica non è un dettaglio: significa rappresentare un’eccellenza riconosciuta ovunque, un orgoglio nazionale e una fonte di prestigio per l’intero sistema Paese. Così come la siderurgia, la chimica, la carta e il vetro sono settori senza i quali non esisterebbe gran parte del manifatturiero europeo. Se vogliamo continuare a produrre automobili, macchine utensili, beni di consumo e infrastrutture, dobbiamo difendere la base industriale da cui tutto parte.
Il tema energetico si intreccia inevitabilmente con quello geopolitico. La crisi degli approvvigionamenti degli ultimi anni ha dimostrato quanto sia rischioso dipendere dall’estero per fonti essenziali. Eppure, anziché accelerare sulla costruzione di una vera autonomia energetica, l’Europa ha preferito imporre regole ambientali più severe senza garantire alternative competitive. Una strategia miope che oggi paghiamo in termini di costi e incertezza. È tempo di una scelta diversa: investire nelle rinnovabili, sì, ma senza demonizzare altre fonti di transizione come il gas o il nucleare di nuova generazione. Solo così possiamo garantire alle imprese energia stabile e accessibile, indispensabile per rimanere sui mercati globali.
Il Cersaie 2025, la grande fiera internazionale della ceramica, ha riportato al centro dell’attenzione questi temi. Non è solo una vetrina di prodotti e design, ma un momento in cui il settore lancia un grido d’allarme: senza politiche industriali coerenti, il rischio è di compromettere anni di leadership. Le aziende italiane non chiedono privilegi, ma condizioni eque per competere. Chiedono di essere messe in condizione di continuare a investire in ricerca, sostenibilità, occupazione. Chiedono che l’Europa smetta di guardare solo alle tabelle degli obiettivi e inizi a considerare la realtà dei territori e delle imprese.
Il momento di agire è adesso. Rinviare significa lasciare campo libero ai concorrenti globali e mettere in discussione la tenuta economica di intere filiere. La politica ha il compito di trovare un equilibrio tra ambiente e industria, tra obiettivi di lungo periodo e necessità immediate. Non possiamo permetterci di scegliere tra lavoro e sostenibilità: dobbiamo costruire un percorso che tenga insieme entrambi.
La ceramica italiana, insieme agli altri settori energivori, rappresenta una delle anime più vitali del nostro sistema produttivo. Difenderla significa difendere il lavoro, il territorio, la capacità di innovare e la reputazione internazionale dell’Italia. L’Europa non può ignorare questa evidenza. Il Green Deal va ripensato, corretto, reso più pragmatico. Perché la transizione verde non può diventare sinonimo di desertificazione industriale, ma deve trasformarsi in un’opportunità di crescita, innovazione e competitività.
  


