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L’AUTOMOTIVE EUROPEO TRA IDEOLOGIA E REALTÀ: perché l’Italia ha ragione a chiedere una transizione pragm

2025-10-29 10:37

Andrea Striano

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L’AUTOMOTIVE EUROPEO TRA IDEOLOGIA E REALTÀ: perché l’Italia ha ragione a chiedere una transizione pragmatica.

di Andrea Striano

di Andrea Striano 

Responsabile Dipartimento Imprese & Mondi Produttivi – Fratelli d’Italia, Caserta
 


Negli ultimi anni, la parola transizione è diventata una sorta di mantra politico e industriale. Tutti ne parlano, ma pochi la comprendono davvero. Il Green Deal europeo, concepito per accelerare la decarbonizzazione, è nato con un obiettivo nobile: rendere il continente un laboratorio globale di sostenibilità. Tuttavia, quando la visione si scontra con l’economia reale, emergono crepe che rischiano di trasformare un’idea virtuosa in un boomerang industriale.

Oggi il settore automobilistico europeo è l’epicentro di questo cortocircuito. Mentre Bruxelles continua a tracciare scadenze e vincoli sempre più rigidi, l’Italia — con la concretezza di chi produce, non solo di chi norma — chiede una cosa semplice: una transizione ecologica che non diventi una resa industriale. Il motore, nel nostro Paese, non è solo un componente meccanico: è il risultato di decenni di competenze, di filiere integrate, di migliaia di piccole e medie imprese che hanno costruito, pezzo dopo pezzo, un’eccellenza mondiale. Dai distretti meccatronici del Piemonte alle officine della Campania, esiste un patrimonio umano e tecnico che non può essere dismesso con un decreto.

Oggi la filiera automotive italiana impiega oltre 270.000 addetti diretti e sostiene quasi un milione di lavoratori nell’indotto: un ecosistema complesso, che vive di equilibrio tra innovazione, know-how e adattamento continuo. Eppure, le nuove politiche europee sembrano ignorare un dato di fondo: una transizione sostenibile deve essere sostenibile anche per chi lavora. La corsa all’elettrico, così come è stata imposta, rischia di trasformarsi in una monocultura tecnologica. Non è una battaglia contro l’innovazione — nessuno mette in discussione la necessità di ridurre le emissioni — ma contro l’idea che esista una sola via possibile.

La neutralità tecnologica non è un compromesso, ma una condizione di libertà industriale. Significa lasciare spazio all’idrogeno, ai biocarburanti, alle nuove generazioni di motori termici a basse emissioni e a un’infrastruttura mista che accompagni il cambiamento. In caso contrario, l’Europa rischia di passare dalla dipendenza dal petrolio a quella dalle batterie e dalle materie prime controllate da pochi attori globali.

L’Italia, in questo contesto, sta tentando — spesso in solitudine — di riportare il dibattito su un terreno pragmatico. Non è negazionismo ecologico, ma realismo produttivo: un approccio che non rifiuta l’innovazione, bensì la vuole ancorare alla realtà delle filiere, dei tempi industriali e delle persone. In un’Europa che spesso parla per principi, l’Italia ricorda che non c’è sostenibilità senza competitività, e che un continente che perde le sue fabbriche non potrà mai essere davvero verde.

Serve dunque un cambio di prospettiva. La vera sfida non è decidere se il motore debba essere elettrico o termico, ma come rendere sostenibile l’intero ciclo industriale: dal design alla produzione, dal riciclo all’energia. La transizione ecologica sarà un successo solo se saprà essere anche una transizione industriale, sociale e territoriale. E in questo percorso, la voce dell’Italia — dei suoi imprenditori, dei suoi tecnici, dei suoi distretti — non può restare inascoltata. Perché ogni volta che l’Europa ignora chi produce, rischia di disattivare non solo un motore, ma un intero modello di civiltà.